Il seguente testo, riadattato e ampliato, è tratto da “La prima e tarda attività di Luca Signorelli: nuove indagini e acquisizioni”, Perugia 2016, pp. 84-86.
Figura 1
Sui rapporti professionali e di amicizia tra Luca Signorelli e Pietro Vannucci detto il Perugino molto è stato scritto ed è quindi superfluo tornare sull’argomento, di cui marginalmente anche noi ci siamo occupati [1]. Alle pp. 90-96 e 171-173 del testo sopracitato viene affrontato il problema delle responsabilità assegnabili ai due pittori all’interno del cantiere sistino, nonché dei significati che è possibile attribuire ai rispettivi ruoli, anche alla luce delle successive vicende lavorative di Luca e Pietro. Ora, però, vorremmo spendere qualche parola a favore di una nota “provocazione” di Laurence Kanter (1990), per quanto la sostanza di tale teoria, ritenuta inaccettabile dalla maggioranza dei critici, sia stata anticipata da autori precedenti, a partire da Girolamo Mancini (1903), che con queste parole descriveva la Crocifissione e santi di Perugino ora agli Uffizi (fig. 1) [2]:
La Maddalena, disperata per lo scempio del Maestro, sfoga l’affetto operoso impedendo che il sangue sgorgato dalle ferite dei piedi cada sul terreno, non rimane inerte ed assorta nel contemplare come le Maddalene del Perugino […]. Pietro creava figure dignitose, devote, rassegnate, idilliche; Luca agitate da vive passioni, da pietà, da dolore, da sdegno, da speranza, dagli affetti delle anime più sensitive.
Poco o nulla sembra contraddire la supposizione di Kanter secondo la quale Signorelli, nella fase iniziale del suo perfezionamento verrocchiesco, si sarebbe appoggiato al Vannucci, certamente meglio e da più tempo (almeno dal 1472) introdotto nella vita artistica di Firenze, per muovere i primi passi in un ambiente sempre rimasto ai margini del mondo pierfrancescano e quindi distante dai suoi trascorsi pittorici. Del resto, gli argomenti mossi in contrario dalla critica non sono molto convincenti o decisivi: è difficile immaginare perché Signorelli non partecipasse ai primi affreschi condotti da Perugino nella cappella Sistina, ma le spiegazioni potrebbero essere le più disparate; inoltre, non pare improponibile che, nelle presunte opere di collaborazione, ci fosse da parte del cortonese la volontà (se non l’obbligo) di adeguarsi e uniformarsi allo stile del maestro umbro: basta mettere a confronto, sulle pareti della Sistina, la Consegna delle chiavi con gli Ultimi fatti della vita di Mosè per capire come, nel secondo affresco, a Signorelli (e al collega Bartolomeo della Gatta) fosse concessa una libertà stilistica ed espressiva certo non prevista nella prima importantissima scena, ovviamente sovrintesa dal Vannucci.
D’altra parte, lasciando fuori dalla questione l’Adorazione dei Magi di Perugia (Galleria Nazionale dell’Umbria), sulla quale il discorso si farebbe estremamente complesso, non si può negare che nella Crocifissione e santi di Firenze ci siano degli aspetti – sul piano tecnico, stilistico e figurativo – che mal si addicono al Perugino anche più verrocchiesco e che ci spingono, piuttosto, in direzione di Luca Signorelli [3]. Se l’impostazione generale del dipinto, il paesaggio e i tipi del Battista, del beato Giovanni Colombini e di san Francesco vanno ascritti al Vannucci, viceversa appartengono al mondo signorelliano la Maddalena (l’intensità dignitosa e commovente della figura, la partecipazione emotiva indicata dalla posa e dall’atteggiamento, il fascino seducente privo di estetismi o leziosità, l’accentuata scriminatura centrale dei capelli compatti, lo scorcio ardito dell’aureola, la ricaduta sul petto del velo trasparente sovrapposto alle ciocche divergenti dei capelli; fig. 2), il Cristo appeso alla croce (pesantemente e rigidamente abbandonato alla morte, di un crudo realismo scevro da qualsiasi idealizzazione, rozzo e “contadino” come un Crocifisso di Donatello) e il san Girolamo (tratteggiato in maniera espressionistica, piegato e “disseccato” al pari del sant’Onofrio della Pala Vagnucci, ora nel Museo Capitolare di Perugia); come peculiari di Luca – anche nei tipi figurali riferibili a Perugino – sono il tono ribassato e brunito-grigiastro della tavolozza, la tecnica pittorica a tocchi rapidi e continui (che si avvale di un pennello largo, dalle setole corte, e di un medium più denso e viscoso) e il rafforzamento dei contorni delle figure che si staccano più nettamente dal fondo, come a non volersi fondere con esso [4].
Quanto suggerito dall’analisi tecnica e stilistica trova conferma nel bordo “ricamato” del manto della Maddalena (non a caso il personaggio che più si avvicina al mondo di Luca), in caduta verticale verso la pisside e quasi parallelo al legno della croce, dettaglio tornato perfettamente leggibile dopo l’ultimo restauro (fig. 3): tra i soliti caratteri pseudocufici, infatti, si cela una probabilissima “criptofirma” di Signorelli (accompagnata dalla data 1480), secondo una modalità già osservata nella cappella Sistina (la sigla “PS” ricomparsa sul bordo del manto azzurro di Cristo nella Consegna delle chiavi, lì dove guarda e indica l’apostolo collocato alle spalle del Redentore e dovuto proprio al pennello del cortonese; fig. 4), poi individuata nella Pala di Santa Cecilia a Città di Castello (Pinacoteca Comunale), precisamente nell’abito di Santa Caterina d’Alessandria (fig. 5), e recentemente riscontrata anche nella predella della Pala di Paciano ora nella Galleria Nazionale dell’Umbria (esattamente nella scena con il Martirio di san Lorenzo; fig. 6).
Procedendo dal basso verso l’alto, ossia da sinistra verso destra lungo il bordo della veste, possiamo dunque notare i seguenti caratteri, naturalmente dissimulati in vario modo (specie le prime due “X”):
XLXX[CCCC]M° LUC SI
vale a dire
LUC[A] SI[GNORELLI] M°[CCCC]LXXX
Mentre l’indicazione del secolo (“CCCC”) è ricavabile dalle quattro estremità “arricciate” della seconda e terza “X”, il cognome del pittore, richiamato dalla prima sillaba “SI”, è desumibile dall’andamento ritmico della svastica greca, una soluzione molto originale, quest’ultima, a suo tempo verificata nella citata Pala di Santa Cecilia.
Figura 2
Figura 3
Figura 4
Figura 5
Figura 6
[1] Kanter 1990; Moriondo Lenzini 1992; Kanter 2001, pp. 14-16; Henry 2004a; Henry 2004b; Caracciolo 2005a, pp. 33-38.
[2] Mancini 1903, pp. 39-41; Garibaldi 1999, pp. 27 e 107; Henry 2012a, p. 31; Martelli 2012, p. 64.
[3] La tavola, menzionata nella Vita di Perugino come opera di “infinita diligenza” (Vasari [1568], p. 531), è alquanto controversa pure nella datazione, oscillante tra il 1478 e il 1484. Si trovava nella chiesa fiorentina di San Giusto fuori le mura, andata distrutta durante l’assedio del 1529-1530, e nel 1531 venne trasferita dai frati Ingesuati nella loro nuova sede, la chiesa di San Giovannino della Calza, dove, poco prima che l’opera approdasse nella Galleria degli Uffizi (1904), ancora la descrive Girolamo Mancini (1903).
[4] Per rendersi conto della distanza che separa i due pittori sul piano figurativo, anche in opere che dovevano passare per lavori di Perugino, abbiamo già proposto (Caracciolo 2005a, p. 46, nota 12) di confrontare le figure della Maddalena, di Cristo e san Girolamo con quelle dipinte dal Vannucci, come sempre in chiave “estetizzante”, nel quasi contemporaneo Trittico Galitzin della National Gallery of Art di Washington (ca 1480-1485), e la Maddalena anche con quella dipinta da Perugino nel precedente Gonfalone del Farneto (1473; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria), quest’ultima interpretata in chiave “angelica” e leonardesca.