LA VISIONE DEGLI UMILI IN ARTE E IN LETTERATURA
TRA ROMANTICISMO E REALISMO,
DA MILLET A COURBET, DA MANZONI A VERGA
In questo percorso si metteranno a confronto due romanzi che hanno gli umili per protagonisti, l’uno romantico, l’altro realista, i Promessi Sposi di Manzoni (1827) e i Malavoglia di Verga (1881); quindi si calerà il suddetto confronto nel mondo dell’arte, focalizzando l’attenzione su due opere pittoriche di scuola francese: Le spigolatrici di Millet (1857, Parigi, Museo d’Orsay), quadro solitamente classificato come realista ma ancora fortemente permeato del clima romantico, e Lo spaccapietre di Courbet (1849, Svizzera, Collezione Privata), quadro rappresentativo della nuova estetica realista.
Se confrontiamo l’inizio dei due romanzi, riscontriamo alcune significative differenze che permettono immediatamente di riconoscere le diverse poetiche dei due autori: l’uno e l’altro, infatti, partono da una volontà di realismo, ma lo declinano in forme assai differenti, corrispondenti alle rispettive visioni della realtà. Il romanzo manzoniano inizia con la celebre descrizione paesaggistica che procede, seguendo un movimento quasi cinematografico, dal lontano al vicino, dall’alto verso il basso e dal verticale all’orizzontale, fino a soffermarsi su un personaggio che si muove su uno sfondo naturale (Don Abbondio): questa tecnica verrà replicata all’inizio del quarto capitolo per introdurre la figura dell’alter ego di Don Abbondio, Fra Cristoforo (si veda la rigorosa simmetria del sistema dei personaggi dei Promessi Sposi). L’ambiente esterno viene quindi presentato e descritto dettagliatamente e il racconto s’inquadra in una cornice geografica ben precisa.
Nei Malavoglia, invece, come anche in molte novelle dello stesso Verga (con la dovuta eccezione della novella La roba), si entra subito nel vivo della narrazione, con un vivace ritratto, effettuato dal coro popolare, della famiglia di Aci Trezza, mentre dell’ambiente esterno non viene data alcuna informazione, come se il lettore lo conoscesse da sempre: quest’ultimo, in verità, solo gradualmente potrà comprendere dove si svolga la trama del romanzo.
Confrontiamo ora i due dipinti: Millet colloca le tre protagoniste del suo quadro in un vasto scenario naturale che occupa i due terzi della superficie della tela, grazie allo stratagemma dell’adozione di un punto di vista molto rialzato, che non può certo coincidere con quello, assai ribassato, dal quale sono invece scorte le contadine intente a spigolare (lo stesso procedimento verrà attuato ne L’Angelus e ne La pastorella). È dunque presente lo stesso movimento cinematografico (dall’alto verso il basso) dei Promessi Sposi, mentre ampio spazio viene riservato alla descrizione della natura: i campi di grano che si perdono in lontananza; i covoni altissimi oltre la linea dell’orizzonte; i carri trainati dai muli; i braccianti intenti alla mietitura; i “campieri” che controllano il lavoro in sella ai loro cavalli; la fattoria con le sue rimesse, le stalle e i magazzini; una vegetazione verdeggiante dietro la stessa; il cielo terso e assolato, velato di nuvole e annebbiato dalla calura estiva, solcato da uno stormo di uccelli.
Courbet, invece, focalizza tutta l’attenzione dello spettatore sulla figura dello spaccapietre – prepotentemente in primo piano, al centro del dipinto, secondo una visuale frontale ed estremamente ravvicinata – e senza alcuna concessione alla resa dello scenario naturale, appena accennato nell’angolo superiore destro (il declivio di una collina e il tronco di un albero di cui scorgiamo i rami più bassi); la profondità spaziale e la linea dell’orizzonte sono completamente assenti, giacché il quadro è destinato a rimanere tutto sul primo piano, come confermano le geometrie compositive di superficie: non solo l’immagine del contadino è articolata secondo l’asse mediano e le diagonali del dipinto, ma la sua schiena va a creare una linea diagonale intermedia e parallela rispetto alle due costituite dagli attrezzi agricoli, il martello a sinistra e la zappa a destra. Proprio gli attrezzi, unitamente ai restanti oggetti (la pentola, il cucchiaio, il filone di pane, il cappello di feltro e gli zoccoli), entrano nella rappresentazione con una prepotenza tale da marginalizzare completamente il paesaggio, di cui balza all’attenzione solo la caratteristica brulla e sassosa del terreno (la natura arida riflette la povertà stessa dei lavoratori). Il massimo rilievo dato alla realtà oggettuale, alla roba, come anche il rapporto tra la miseria umana e la natura inospitale, trovano un chiarissimo riscontro proprio nella letteratura verghiana.
La concezione manzoniana degli umili manca di qualsiasi riferimento di natura economica o politica: gli umili vengono paternalisticamente inseriti all’interno della storia, governata da Dio e dalla Provvidenza, e per loro non c’è speranza di riscatto sociale né, tanto meno, di rivolta contro l’ordine costituito (a tal proposito, si ricordi l’atteggiamento di ironica superiorità dell’autore rispetto alla sollevazione milanese per il pane in cui rimase coinvolto Renzo). L’unico conforto della povera gente è costituito dalla fede in Dio e dall’accettazione serena della sua volontà, in qualunque forma essa si manifesti (i guai … quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore), ma gli umili dei Promessi Sposi non sono degli sconfitti (il Signore – dice Lucia – c’è anche per i poveri). Renzo e Lucia, aiutati da Agnese, sono gli eroi del popolo che, travolti dalla storia e dai potenti, riescono infine a trionfare, per poi riprendere la vita umile di sempre, nonostante che il mondo intorno a loro torni, come all’inizio del romanzo e anche dopo la “purificazione” della peste, a creare e mantenere le distanze tra i ceti, la perenne separazione tra le caste e la gente comune (emblematico l’episodio dei due pranzi alla presenza di Don Abbondio, per nulla cambiato dopo tutto quello che è accaduto, mentre fra Cristoforo è morto).
Il quadro di Millet è la traduzione pittorica di tutto ciò: le tre spigolatrici, grazie al punto di vista ribassato e alla costruzione architettonica dei loro corpi, assumono una dignità monumentale e quasi eroica, in assoluto contrasto con la ricchezza e il potere che dominano nello sfondo: significativi, a tal proposito, l’arretramento di quest’ultimo rispetto al disegno preparatorio del British Museum di Londra (con un vuoto centrale incolmabile), nonché l’opposizione tra i due mondi ottenuta attraverso la convergenza, quasi prospettica, delle tre linee di forza (costituite dalle braccia e dal corpo della donna di destra) sulla linea dell’orizzonte e attraverso il contrasto cromatico tra i colori freddi e l’ombra del primo piano e i colori caldi e il clima assolato dello sfondo (dove il dominio del colore giallo-oro rimanda simbolicamente alla ricchezza dei padroni). È doveroso precisare che se l’opera di Millet sollevò violente polemiche (fino a meritarsi l’appellativo sarcastico di Le tre Grazie dei poveri) e alimentò letture in chiave politica (di matrice anarchico-socialista), in occasione della sua esposizione al Salon del 1857, d’altra parte queste intenzioni erano lontanissime dalla mente del pittore.
La condizione degli umili verghiani, invece, è presentata attraverso un’analisi di natura economica dei rapporti di causa-effetto (dovuti alla natura esclusivamente materialistica dei moventi dell’agire umano). I poveri di Verga sono dei vinti senza speranza, la cui unica possibilità è quella di tirare la vita coi denti più a lungo che potranno; essi sono in balia di un destino che li sovrasta, senza nessuna fede che li sostenga, se non la religione della famiglia (ideale dell’ostrica). Per Verga le necessità materiali e l’egoismo individuale sono alle radici del progresso e tutta la società è dominata dalla lotta per la sopravvivenza: rispetto a questa lotta, l’ideale dell’ostrica rappresenta per gli umili non una scelta consapevole, ma una necessità vitale, l’unica speranza di salvezza (allorquando uno di quei piccoli … volle staccarsi dai suoi … il mondo da pesce vorace ch’egli è se lo ingoiò). Le opere verghiane rappresentano dunque la drammatica esistenza degli umili e sono espressione di un pessimismo cupo non riscattato da nessuna prospettiva ultraterrena, alcuna fede religiosa, alcuna speranza di redenzione.
La tela di Courbet è, con ogni evidenza, la traduzione pittorica di tutto ciò. Tra l’altro, è assai significativo notare, anche attraverso un altro famosissimo quadro di Courbet (L’atelier dell’artista), quanto l’atteggiamento di quest’ultimo verso gli umili fosse molto simile a quello di Verga: entrambi descrivono oggettivamente la miseria dei contadini, senza esserne coinvolti emotivamente, e tracciano un quadro quasi scientifico della lotta per la vita, che vede tutti in campo, sfruttati e sfruttatori, ricchi e pezzenti (coloro che vivono della morte, cioè schiavi dei bisogni materiali o di una fede dogmatica); quindi offrono quella rappresentazione a un pubblico che appartiene ai salotti buoni della società parigina e milanese (coloro che vivono della vita, che si nutrono di cultura e sentimenti nobili), manifestando, verso quella stessa realtà, un distacco che, nonostante le simpatie socialiste dei primi anni, si è andato progressivamente assestando su posizioni conservatrici. Nella parte sinistra della grande tela di Courbet scorgiamo un bracconiere, un usuraio ebreo, un prete cattolico, un becchino, un venditore ambulante di stoffe, un borghese, una donna irlandese che allatta il figliolo, un operaio, una prostituta, un giullare, uno sterratore, un falciatore; nella parte centrale e destra, invece, sono la Natura (la tela), il Vero (la modella nuda), l’Istinto (i due bambini), l’Amore (gli amanti), la Poesia (Baudelaire), la Musica (Promayet), la Filosofia (Proudhon), la Letteratura (Champfleury), il Collezionismo e il mercato d’arte (Bruyas e la coppia in primo piano, i coniugi Sabatier).
Il paragone fin qui svolto può essere esteso, in modo significativo, anche all’ambito prettamente stilistico: dopotutto, è lo stesso Verga che, nella Prefazione ai Malavoglia, ci suggerisce una simile operazione, visto il ricorrere di un linguaggio che, metaforicamente, sfrutta il campo semantico della pittura. Millet, grazie alla leggerezza delle sue tinte, allo sfumato che ammorbidisce i contorni delle figure e le amalgama con il paesaggio circostante, e al delicato controluce, utilizza un linguaggio pittorico ancora elevato, romantico, e ci restituisce una visione tutto sommato serena e bucolica, lirica e sentimentale, del lavoro dei campi, dove la fatica quotidiana si inserisce entro una cornice naturale tutto sommato accogliente (familiare e amata dall’uomo che è in armonia con essa), riassorbita nella ciclicità di un tempo agricolo scandito dal ritmo delle stagioni, dal suono delle campane e dai momenti di preghiera (si pensi a un altro capolavoro di Millet, L’Angelus). Si tratta dunque di una visione filtrata e mediata, romanticamente, dalla volontà di un pittore “onnisciente” che, dall’alto, guarda a un mondo al quale egli stesso apparteneva e a cui è rimasto legato da ricordi pieni di nostalgia e di affetto. Quello di Millet, in sostanza, è un realismo prospettico molto simile a quello manzoniano, in cui la prospettiva (l’alto dell’autore onnisciente e il basso dei lettori) rivela l’esistenza di un punto di vista superiore (quello di Dio), dal quale giudicare e riassumere tutta la realtà.
Viceversa quello di Verga è un realismo straniante, che obbliga i lettori a interrogarsi su cosa stiano leggendo, senza che l’autore fornisca loro le chiavi per decifrare il racconto, così come l’autore stesso non possiede le chiavi per decifrare una realtà che, anche a quel semplice livello, appare troppo sfuggente e complessa (si pensi al criterio progressivo del Ciclo dei Vinti). A tal punto che all’autore non rimane altro che descrivere, in maniera lucida, impersonale e quasi scientifica, la dura vita dei campi, eclissando il proprio punto di vista e regredendo al livello stesso degli umili rappresentati. Ebbene, quella di Courbet è una vera e propria regressione pittorica, in cui non c’è alcuno spazio per significati che vadano oltre la lucida e spietata rappresentazione di un mondo di straccioni e pezzenti, dove manca qualsiasi intento idealizzante, dove l’unico scopo è quello di rappresentare la realtà con la stessa oggettività percepita da chiunque si collochi allo stesso livello di quegli straccioni. E non manca pure l’effetto straniante: perché l’osservatore, abituato per “senso comune” alla concezione accademica dell’opera d’arte, si domanda che senso abbia fare un quadro come lo Spaccapietre, che senso abbia dare dignità pittorica a un soggetto così basso e volgare. Lo stile, lucidissimo, mette a fuoco impietosamente ogni singolo particolare: gli zoccoli sgangherati, i calzini bucati sui talloni, il panciotto lacero, i pantaloni rattoppati, la camicia sporca e rattoppata, le mani callose, il viso arso dal sole, i sassi infuocati, l’ombra lontana (a indicare un ristoro che non riguarda l’uomo rappresentato, costretto a lavorare – e forse anche a mangiare – sotto lo schioppo del sole). Il volto dell’uomo è volutamente oscurato e celato, a indicare una condizione esistenziale, così come nella letteratura verghiana mancano spesso riferimenti geografici e cronologici, sì da conferire alle storie un carattere universale e atemporale.