La prima e tarda attività di Luca Signorelli: nuove indagini e acquisizioni, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fabrizio Fabbri Editore, Perugia, dicembre 2016, 568 pagine
Il libro è dedicato alle popolazioni terremotate dell’Umbria e dell’Italia Centrale
In questo volume s’intende presentare un lavoro che vuole contribuire al rinnovato fervore conosciuto, nell’ultimo quindicennio, dagli studi signorelliani, i quali, a partire dal 2001 (data dell’edizione italiana della monografia di Tom Henry, Laurence Kanter e Giusi Testa), sono proseguiti ininterrottamente fino a confluire, nel 2012, nella mostra monografica dedicata in Umbria al grande artista rinascimentale (Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria; Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo; Città di Castello, Pinacoteca Comunale). Il 2012 è anche l’anno in cui Tom Henry dava alle stampe l’edizione britannica della sua nuova monografia, poi tradotta in italiano nella pubblicazione del 2014, e in cui si concludeva, presso l’Università degli Studi di Perugia, un ciclo di dottorato essenzialmente incentrato sul pittore cortonese.
Come si evince dal titolo prescelto, il presente lavoro oscilla tra i due poli estremi della straordinaria parabola artistica di Luca, in quanto a un primo capitolo incentrato sul tema della formazione e degli esordi, dal tirocinio pierfrancescano fin quasi alle soglie della maturità, segue un capitolo dedicato a uno dei filoni più rilevanti e prolifici della produzione signorelliana, quello della Sacra Conversazione, considerata lungo l’intero arco della carriera del pittore: dalla Pala Vagnucci di Perugia, l’opera della primissima maturità, alla Pala del Calcinaio di Cortona, un lavoro incompiuto ed ereditato da Francesco Signorelli, nipote, allievo e collaboratore di Luca.
La selezione delle opere su cui concentrare i nostri sforzi è stata effettuata in vista e preparazione della mostra umbra del 2012, considerando fondamentalmente tre fattori: primo, l’occasione unica e irripetibile di vedere riunite e affiancate, in prestito da collezioni italiane e straniere, tutte le opere che la critica passata e recente ha discusso come possibili lavori primo-signorelliani di impronta pierfrancescana; secondo, la necessità di proseguire e approfondire, specie sul versante della ricerca archivistica, i nostri studi (inaugurati dalla tesi di laurea discussa nel 2003) dedicati alla prima opera sicura del catalogo di Luca, la Pala Vagnucci di Perugia, che avrebbe costituito il perno centrale e il polo d’attrazione della suddetta mostra, una volta uscita dalla consueta collocazione nel Museo Capitolare del duomo cittadino; infine, il proposito di rivalutare (specie nel loro valore storico e iconografico) alcuni tardi dipinti – ascrivibili alla bottega di Signorelli e realizzati per località minori dell’Umbria – che, sino a oggi, hanno goduto di una fortuna critica pressoché inesistente: come è accaduto anche alla Pala della Concezione, situata nell’immediata periferia di Cortona, qui prescelta per il fortissimo rapporto che la lega al capolavoro perugino, in quanto dovuta alla committenza della medesima famiglia cortonese.
Nell’affrontare questi tre ambiti d’indagine, abbiamo seguito la stessa impostazione che ha contraddistinto i nostri precedenti studi (compreso quello dedicato alla pala perugina, pubblicato nel 2008), ossia la volontà di conferire il massimo rilievo alla dimensione storica e alla contestualizzazione dell’opera vista innanzitutto come “oggetto”, col mettere in secondo piano l’analisi stilistica e l’attribuzionismo che, quando possibile, lasciamo volentieri a menti e occhi più esperti, a tutto vantaggio di una storia dell’arte meno sterile e forse più concreta.
Sul tema, estremamente delicato e complesso, degli esordi pierfrancescani di Signorelli, la critica non verrà mai a capo del problema, fintanto che si limiterà ad analizzare, confrontare e guardare ancora i cinque lavori del “gruppo Berenson-Salmi”: non solo perché il vuoto che li separa dalle prime opere del catalogo di Luca ha causato la perdita di qualsiasi riferimento intermedio, ma soprattutto perché le mani dei singoli allievi difficilmente avrebbero potuto emergere da questa sorta di koinè pierfrancescana, dettata non solo dall’intrinseca uniformità del linguaggio di Piero, ma anche dalla necessità di qualificare tali opere come lavori autografi del maestro.
L’unica strada che può essere percorsa utilmente, a nostro parere, consiste nello sciogliere il nodo cruciale di tutta la questione: capire perché, a partire dal Settecento, l’affresco – oggi staccato e frammentario – già collocato sulla torre del Vescovo a Città di Castello sia stato attribuito con perentoria sicurezza a Signorelli. La soluzione che abbiamo formulato nelle pagine che seguono, basata sullo studio del contesto in cui era inserito l’affresco e sulla piena comprensione delle circostanze storiche che ne determinarono la commissione, è solo una proposta, naturalmente, ma speriamo che in futuro nuovi elementi possano essere raccolti sulla via che abbiamo inteso tracciare.
Ovviamente, affrontando la questione del primo Signorelli, siamo stati obbligati a misurarci su un terreno che – lo si è detto sopra – non ci è molto congeniale, quello del confronto stilistico a fini attributivi. In tale ambito, ci siamo sforzati – ma è impresa davvero ardua – di isolare alcune peculiarità del cortonese, magari distinguendole da quelle di un altro artista documentato, negli stessi anni, quale allievo di Piero della Francesca: il perugino Pietro di Galeotto, il quale, fino a qualche anno fa, si vedeva attribuire, sulla base di serie e meditate considerazioni, tutti e cinque i dipinti del “gruppo Berenson-Salmi”, per poi essere improvvisamente e del tutto scalzato a vantaggio ancora del nome di Signorelli. A tal punto che si profilava l’eventualità che il Gonfalone di San Francesco del 1480, unica opera superstite del pittore perugino, non venisse esposto nella mostra dedicata a Signorelli, dopo aver fatto la propria comparsa in precedenti esposizioni in cui la sua presenza non era pienamente giustificata (nell’ordine, le mostre di Perugino, Pintoricchio, Piermatteo d’Amelia e Melozzo da Forlì). Francamente, ci siamo stupiti della facilità con cui è stato accantonato il nome di questo bizzarro ma straordinario pittore e, convinti della necessità di mantenere un certo senso della “sfumatura” soprattutto in quelle opere di bottega in cui è facile che più allievi siano intervenuti simultaneamente, abbiamo chiesto e ottenuto che il gonfalone venisse esposto, proponendo di poter leggere la mano del Galeotto almeno in alcune parti del dipinto più debole del “gruppo Berenson-Salmi”, la Madonna di Boston.
Terminato il capitolo aretino-pierfrancescano con l’analisi del lavoro più impegnativo della serie, la Presentazione al Tempio di New York (talmente ispirata alla Pala Montefeltro di Piero da essere capace di gettare nuova luce sulla stessa), non potevamo poi trascurare una tappa altrettanto fondamentale dell’iter formativo del nostro pittore, il suo ingresso nell’orbita fiorentina di Verrocchio, infine sfociato nella partecipazione di Luca all’impresa decorativa della cappella Sistina: partecipazione di cui vengono messi a fuoco tempi e significati, anche alla luce di una revisione critica della vicenda documentaria della cappella papale.
Per quanto concerne invece il secondo tema del nostro studio, le indagini archivistiche condotte nell’Archivio Capitolare di San Lorenzo, ora agevolmente consultabile, hanno permesso di confermare molte delle ricostruzioni e delle conclusioni a cui eravamo approdati per altre vie, talora apportando nuove conoscenze per una definizione ancora più puntuale dell’assetto decorativo della cappella di Sant’Onofrio, la quale sempre più si qualifica per la sua forte connotazione fiorentina. Altre acquisizioni sono derivate dallo studio e dall’osservazione di opere che hanno tratto ispirazione dal capolavoro perugino, la cui fortuna e influenza ora ci appaiono molto più ampie di quanto non fossimo disposti ad ammettere in un primo momento.
Seguendo il filo della committenza Vagnucci, siamo tornati ad occuparci, come si diceva, anche dell’ultima opera di Signorelli, l’Immacolata Concezione nel santuario del Calcinaio a Cortona, del quale è stato ricostruito, altare per altare, l’assetto decorativo cinquecentesco, con l’obiettivo di dare una precisa collocazione alla cappella della Concezione che, nonostante l’uniformità programmatica imposta a tutti gli altari, replicava a Cortona le scelte operate dal vescovo Vagnucci nel duomo di Perugia quarant’anni prima.
Soddisfacente si è rivelato anche il terzo ambito di ricerca, che è andato a concentrarsi su opere sradicate dai propri contesti, mutilate e di qualità non certo eccelsa, da secoli trascurate e abbandonate dalla critica. Quante volte, in questi anni, ci siamo imbattuti nella perplessità di chi riteneva tali opere non degne di uno studio monografico o di una tesi di dottorato! La Pala di Paciano ora a Perugia o la Pala di Santa Cecilia a Città di Castello, ad esempio, non saranno certo le opere migliori di Signorelli, ma sono forse quelle più ricche di storia, più intimamente connesse ai contesti di provenienza, più radicate nella sensibilità religiosa e popolare dell’epoca. Riportando mentalmente nei luoghi originari queste e altre opere (come la Pala di Montone ora a Londra) e cercando di ricostruirne la cornice storica, è stato possibile capire molto di più sul piano iconografico e iconologico, si è giunti a una plausibile ricostruzione virtuale delle ancone smembrate e non sono mancate le sorprese (tra cui l’individuazione di due “criptofirme”), talora accompagnate da rinvenimenti documentari. Questa è stata anche l’occasione per rendersi conto che alcune delle opere studiate nascondono, dietro lo sporco e l’invecchiamento, una qualità davvero insospettabile, specie in taluni brani nei quali non è improponibile ipotizzare l’intervento diretto dell’anziano maestro: in particolare, ci riferiamo alla Pala di Santa Cecilia nella Pinacoteca tifernate, che solo un accurato restauro potrà riportare all’attenzione della critica, come merita (e come, recentemente, è accaduto proprio alla Pala di Paciano).
I due capitoli del presente studio sono accompagnati da circa 650 note e illustrati da una sessantina di tavole a colori: il volume delle annotazioni, non sempre meramente compilative o bibliografiche, è piuttosto corposo per la scelta di rendere il testo quanto più snello e scorrevole, ma è parte integrante delle riflessioni condotte nei vari paragrafi; alle note sono poi affidate alcune digressioni che esulano dal tema signorelliano, ma non per questo meno rilevanti: come, ad esempio, quelle riguardanti il coro del duomo perugino, che sarà oggetto di un prossimo contributo dello scrivente, o la “ricostruzione” della vetrata absidale della cattedrale di Foligno.
Seguono tre appendici: la prima (“A”) riunisce le schede bibliografiche dei dodici principali dipinti presi in considerazione; la seconda (“B”) raccoglie una trentina di documenti (o raggruppamenti di documenti), quasi tutti inediti, corredati di annotazioni; la terza (“C”) è una cronologia documentaria della vita e delle opere del pittore cortonese (limitata agli anni che sono oggetto di questo studio), predisposta anche attraverso un confronto con l’archivio digitale che, nel frattempo, Tom Henry ha pubblicato sulla rete. Il tutto è concluso da un’ampia bibliografia, completa per gli anni che vanno dal 2001 al 2016.
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